A cura della Camera Civile di Nocera Inferiore
Grazie alla ratifica della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (legge 4 agosto 1955 n. 848) anche nel nostro ordinamento è stato finalmente introdotto il diritto alla ragionevole durata del processo, fino ad arrivare ad essere recepito espressamente anche a livello costituzionale tramite la previsione dell’art. 111, comma 2, che espressamente prevede che “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata”.
Dunque anche in Italia trovava ingresso il diritto di ciascun cittadino ad ottenere una risposta dalla giustizia entro termini ragionevoli. In origine, però, la lesione di tale diritto poteva essere fatta rilevare solo innanzi alla Corte di Giustizia Europea, non essendo ancora prevista a livello nazionale uno specifico procedimento giudiziario ad hoc che ne definisse gli esatti contorni giuridici ed indennitari. A tale scopo il nostro legislatore intervenne con la L. 89/2001, c.d. Legge Pinto, che introduceva, appunto, un procedimento nazionale per salvaguardare il cittadino dall’irragionevole durata dei processi senza dover ricorrere agli organi sovranazionali.
Attraverso detta legge veniva dunque disciplinato il procedimento per ottenere il risarcimento dei danni, patrimoniali e non patrimoniali, derivanti dall’irragionevole durata del processo (art. 1-bis, L. 24/03/2001, n. 89ed al fine di tutelare il principio di ragionevole durata dei processi, sancito dall’art. 6 CEDU (Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo) e, come detto, oggi costituzionalizzato all’art. 111 Cost. quale corollario del principio del c.d. giusto processo. Nell’incertezza del dato normativo, l’istituto dell’equa riparazione è stato ricondotto dalla giurisprudenza nell’alveo delle riparazioni di natura indennitaria; Conseguentemente, la relativa obbligazione dello Stato è un’obbligazione ex lege, per danni cagionati nell’esercizio di un’attività lecita.
L’introduzione del diritto alla ragionevole durata del processo, e del conseguente specifico procedimento per ottenere l’equa riparazione, ha costituito senza alcun dubbio una innovazione di portata quasi epocale per il nostro sistema giudiziario, fino a quel momento impassibile rispetto ai notori ritardi e disfunzioni che, ancor oggi purtroppo, caratterizzano la giustizia italiana. Tra gli scopi della legge vi era, indubbiamente, anche quello di sensibilizzare l’amministrazione giudiziaria rispetto al tema della durata dei giudizi, tanto che il comma 4 dell’art. 5 della legge prevede tuttora che “Il decreto che accoglie la domanda e’ altresì comunicato al procuratore generale della Corte dei conti, ai fini dell’eventuale avvio del procedimento di responsabilità, nonché ai titolari dell’azione disciplinare dei dipendenti pubblici comunque interessati dal procedimento”. Insomma, oltre che strumento per riconoscere un giusto risarcimento per le ipotesi (tutt’altro che rare) di violazione della ragionevole durata del processo, la Legge Pinto si appalesava come occasione per normalizzare la nostra giustizia su tempi certi ed equilibrati.
Tuttavia così non è stato ed, anzi, si è, piuttosto, registrato l’inverso: la Legge Pinto, tesa a conformare l’amministrazione della Giustizia verso i canoni della ragionevole durata dei processi, è stata essa stessa ad essere, di volta in volta, conformata ed adeguata alle ormai croniche disfunzioni del nostro apparato giudiziario. Difatti dalla sua entrata in vigore ad oggi si sono registrati diversi interventi legislativi che hanno inciso in maniera rilevante sia sul diritto che sulla procedura.
In primo luogo il D.L. 22 giugno 2012, n. 83 ha introdotto l’art. 2 bis col quale è stato previsto un limite all’importo indennizzabile, che può oscillare tra un minimo di euro 400 e un massimo di euro 800 per ciascun anno, o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del processo, laddove, ad origine le somme liquidate, uniformemente alla giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea, variavano tra un minimo di € 1.500,00 e un massimo di € 2.000,00.
Ugualmente incisiva è stata la L. 28 dicembre 2015, n. 208, che ha introdotto i cd. “Rimedi Preventivi”, cioè una sorta di pre requisito in mancanza del quale non è possibile ottenere l’equo indennizzo. Difatti l’attuale art. 2 della legge prevede espressamente l’inammissibilità della domanda di equa riparazione proposta dal soggetto che non ha esperito i rimedi preventivi all’irragionevole durata del processo di cui all’articolo 1-ter. Tali rimedi, nell’ambito civile si sostanziano:
1) nell’introduzione del giudizio nelle forme del procedimento sommario di cognizione di cui agli articoli 702-bis e seguenti del codice di procedura civile;
2) nella richiesta di passaggio dal rito ordinario al rito sommario a norma dell’articolo 183-bis del codice di procedura civile, entro l’udienza di trattazione e comunque almeno sei mesi prima che siano trascorsi i termini di cui all’articolo 2, comma 2-bis;
3) nelle cause in cui non si applica il rito sommario di cognizione, ivi comprese quelle in grado di appello, istanza di decisione a seguito di trattazione orale a norma dell’articolo 281-sexies del codice di procedura civile, almeno sei mesi prima che siano trascorsi i termini di cui all’articolo 2, comma 2-bis.
Altro intervento modificativo della possibilità di ottenere l’equa riparazione è stata la espressa previsione della esclusione dell’indennizzo:
• in favore della parte soccombente condannata per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c.;
• nel caso in cui il Giudice abbia accolto la domanda in misura non superiore all’eventuale proposta conciliativa a norma dell’art. 91, comma 1, c.p.c.;
• quando il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto della proposta formulata dal mediatore nel corso del procedimento di mediazione ex art. 13, comma 1, D.Lgs. n. 28/2010;
• nel caso di estinzione del reato per intervenuta prescrizione connessa a condotte dilatorie della parte;
• quando l’imputato non ha depositato l’istanza di accelerazione del processo penale nei 30 giorni successivi al superamento dei termini ex art. 2-bis;
• in ogni caso di abuso dei poteri processuali che abbia determinato un’ingiustificata dilazione dei tempi del procedimento;
• quando, per effetto del pregiudizio, la parte ha conseguito dei vantaggi patrimoniali eguali o maggiori rispetto alla misura dell’indennizzo.
Appare evidente anche agli occhi dei meno esperti che il legislatore, più che preoccuparsi di trovare rimedi alle lungaggini del giudizio, si è premunito di limitare il più possibile il ricorso al procedimento di equa riparazione nonché di limitare i danni dal punto di vista economico, diminuendo ex lege gli importi degli indennizzi generalmente riconosciuti a livello comunitario. Nessun intervento (almeno fin ora) si è, invece, registrato rispetto al termine entro cui viene considerata ragionevole la durata del processo.
A tal riguardo la legge prevede dei parametri fissi che identificano l’eccessiva durata del processo, sia esso civile, penale, amministrativo o tributario. Il termine ragionevole è violato quando il processo eccede la durata di 3 anni in primo grado, di due anni in secondo grado e di un anno nel giudizio di legittimità. Per il processo di esecuzione forzata e per la procedura concorsuale, i termini di ragionevole durata sono rispettivamente di tre e sei anni. In deroga ai parametri richiamati, si considera comunque rispettato il termine ragionevole se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni.
Avvocato Alfonso Attianese – Vicepresidente Camera Civile di Nocera Inferiore